mercoledì 24 aprile 2013

Sono qui

La pesante porta di legno si chiude. Le sbarre di metallo sigillano la gabbia. Una campana di vetro scende e ti imprigiona per sempre. Il cattivo di turno, con un ghigno eloquente stampato in viso, dice la frase di rito: "Grida quanto vuoi, tanto qui nessuno può sentirti!"
In questi giorni, a causa di una serie di vicende socio-politiche personali e (perché no) editoriali, mi sono sentita proprio così: chiusa da qualche parte e senza la possibilità di comunicare. Sono un granello di sabbia vicino ad altri granelli che non riesce a farsi sentire da nessuno.
A questo punto, una donna con bellissimi capelli, un trucco impeccabile e un bel vestito alza la sua mano dalle unghie perfette e chiede la parola: "Com'è possibile che nell'era di internet, dei social network e dei cellulari che ti rendono raggiungibile anche all'inferno, tu possa sentirti isolata?"
Lo spiego raccontando la storia di quel signore che si trovava in sala operatoria, gli stavano facendo una delicatissima operazione a cuore aperto. Ad un tratto, suona un cellulare. Il cardiochirurgo di fama internazionale si ferma con una pinza per aria e si guarda intorno, sbigottito. Gli strumentisti fanno cenno di non sapere quel che accade, ma il cellulare continua a suonare. Come in un film, il paziente si risveglia dall'anestesia totale: "Scusate, non ho spento il cellulare perchè aspettavo una telefonata importante da un cliente. Disturbo se rispondo?" Superato il primo momento di smarrimento, il medico risponde: "Ma certo, faccia pure, ne approfitto per chiamare mia moglie". E nella sala operatoria tutti cominciano a chattare, a telefonare e a navigare. L'unico che rimane solo e disperato è il povero cuore, aperto sul mondo e in attesa di essere ricucito.
Oramai la comunicazione è diventata una cacofonia nevrotica, un martello pneumatico di stimoli, un labirinto di parole e dopo un'ora perduti nella rete, pensiamo di aver ascoltato già abbastanza. Pur non avendo ascoltato nessuno. E' sempre il cuore a perdere.
Un tizio con la faccia da Sigmund Freud interviene e a tradimento, mi dice: "Analizziamo meglio la situazione". Io mi ritrovo sdraiaita su un lettino a raccontargli la mia vita. "Ma vede, dottore, quando mi sento davvero sola, posso sempre contare su pochi, pochissimi amici. Sono perle che conservo in un cofanetto come il tesoro più prezioso. Posso sempre contare su un tè virtuale con la mia amica che abita a 400 km di distanza e mi fanno un po' impensierire quelli che hanno tantissimi amici e poi devono affittare uno stadio per comunicare a tutti i loro crucci".
Penso di essermela cavata, quando a sorpresa esce dal buio l'uomo in nero. Non lo vedo in faccia, ma so chi è e cosa vuole. A lui piace vedere l'altro lato delle cose, quello nascosto. Vediamolo allora il lato nascosto: chi ha chiuso la porta? Chi ha sigillato la gabbia? Chi ha calato la campana di vetro? Di chi è la mano misteriosa che mi ha precluso il contatto con il mondo?
Vado dietro la porta, oltre la gabbia, sopra la campana e trovo sempre la stessa mano: la mia. Volete dirmi che è stato il solito autogol? Ebbene sì, il mondo mi ha temporaneamente chiuso la porta in faccia, perché così io ho voluto.
Ecco che arriva però il classico raggio di sole: se io ho causato la chiusura, io posso uscirne.
Allora esco e mi metto a disposizione di quel che vuole accadere ... e qualcosa, inevitabilmente, accade.

Lo so, avrei dovuto avvertirvi che questo post sarebbe stato quanto meno surreale, ma vi ringrazio per essere arrivati in fondo.
Sipario!

mercoledì 17 aprile 2013

Le cose che sono

Prima che Esteban nascesse, ero convinta di non essere il tipo di donna che (avendone la possibilità) sarebbe rimasta a casa ad accudire il figlio, rinunciando alle proprie attività. Invece, contro ogni previsione, è proprio quello che ho fatto ... e ne sono felice.
La rinuncia (parziale) ad alcune cose che facevo mi ha consegnato in dono dell'altro.
Oggi riflettevo non sul mio ruolo in senso stretto, ma sulla capacità di diventare qualcosa di diverso all'occorrenza. In questi anni, mi sono trasformata in oggetti di vario uso e in animali diversi, rinunciando anche alla mia complessità umana (una vera liberazione!).
Sono un cuscino e una coperta per il mio bimbo, quando si addormenta.
Sono un dispenser di latte fresco a richiesta.
Fungo da pecora per il mio cane da pastore.
Sono l'imitazione mal riuscita di un gatto, una gallina, un cane, un cavallo e un maialino
Le mie mani completano giochi che le manine inesperte di Esteban non riescono a portare a termine.
Sono un mezzo di trasporto bipede.
Sono una spina nel fianco, quando mi irrigidisco e non voglio sentire.
Sono un luogo sicuro in cui sostare.
Sono un paio di orecchie che sanno ascoltare.
Sono una bocca che sputa sentenze, parla di sofferenza, sussurra parole dolci o spiritose.
Sono due occhi che scrutano e osservano.
E sono sicura di essere altre mille cose che per distrazione o rigidità non riesco a vedere.

martedì 2 aprile 2013

Lo stagno della rane (un omaggio alla situazione partitica in Italia)

C'era una volta uno stagno abitato da vari tipi di rane: alcune erano verdi, altre nere, altre rosse, ma c'era anche qualche rarissimo esemplare di colore bianco.
Lo stagno era spesso fangoso, perché la maggior parte delle rane amava sporcarlo senza pulire. Le cose procedettero così per molto tempo, l'opera di pulizia delle poche rane volenterose faceva sì che lo stagno restasse un luogo vivibile.
Poi un giorno accadde ciò che dalle rane più sagge era già stato annunciato tempo prima: lo stagno iniziò a sporcarsi sempre di più e l'opera delle rane volenterose non fu più sufficiente.
Fu in quel periodo che iniziò a comparire nello stagno un nuovo tipo di rana di colore giallo. Queste rane crebbero di numero in poco tempo e, pur vivendo nello stagno con gli altri, dicevano di sentirsi migliori e diverse.
Mentre tutte le altre rane discutevano dei problemi dello stagno e di come porvi rimedio, le rane gialle balzarono fuori dalla stagno e da lì iniziarono a dare indicazioni su come i problemi andavano risolti, rifiutandosi di rientrare nello stagno finché ci fossero state le altre rane.
"Venite giù e aiutateci a mettere le cose a posto" dicevano le rane volenterose.
"No, noi siamo migliori anche di voi e non ci vogliamo mescolare. Fate semplicemente come diciamo" dicevano le gialle.
Nel frattempo, le rane che volenterose non erano, sporcavano sempre di più lo stagno senza ritegno.
La situazione era in stallo: le energie utili a migliorare la situazione erano bloccate.
"Venite giù e accettate di sporcarvi anche voi le zampe in vista di un futuro migliore" dissero un'ultima volta le rane volenterose, ma le rane gialle erano ferme sui loro onorevoli principi.
Purtroppo, l'epilogo di questa storia non è buono: lo stagno collassò per la troppa sporcizia e molte rane volenterose morirono, mentre le rane che sempre avevano sporcato riuscirono a salvarsi e andarono a sporcare da un'altra parte.
Le rane gialle rimasero sul ciglio dello stagno interdette. "Avrebbero dovuto fare quello che dicevamo noi" sentenziarono alla fine.